Digital Reputation

Reputazione aziendale e cultura partecipativa

Nell’era digitale la diffusione della c.d “partecipatory culture”, consentendo a chiunque di creare e condividere contenuti on line, ha reso ancora più delicato il tema della tutela della reputazione aziendale, intesa tradizionalmente come la considerazione e la stima di cui l’azienda gode tra i consociati.

Ciò in quanto grazie ad Internet e alle piattaforme social, l’utente diventa parte attiva nella costruzione della reputazione dei brand, potendo esprimere giudizi anche poco lusinghieri sugli stessi, che salvo non trasmodino in attacchi infamanti e gratuiti o nell’uso di un linguaggio gravemente lesivo della dignità delle persone, costituiscono legittima espressione del diritto di critica, costituzionalmente garantito.

Participatory Culture describes a world in which everyone participates. A world where anyone can create and share media and anyone can have an opinion and reuse organisational material.

(Jenkins 2013)

Proprio di recente il Tribunale di Roma con la sentenza n.17278/2020 si è pronunciato sulla natura diffamatoria di alcuni commenti (c.d feedback) espressi da numerosi utenti sulla piattaforma Google my business- portale finalizzato alla promozione di attività commerciali- riguardo alle prestazioni di una struttura sanitaria e alla professionalità del personale impiegatovi e di cui la stessa struttura sanitaria ne chiedeva la rimozione, giudicando tali commenti falsi, diffamatori e pregiudizievoli per l’immagine e la reputazione della struttura stessa.

Secondo il Tribunale di Roma i toni sferzanti, ma mai volgari o gratuitamente insultanti di alcuni commenti (“medici impreparati, burini e spocchiosi; medici da evitare e struttura gestita da incapaci ; scandalosi”) non apparivano meritevoli di censura, in quanto espressione di una legittima critica rappresentativa di un vissuto personale con riferimento alla percezione dei comportamenti tenuti dal personale della struttura stessa, senza che tali commenti integrassero alcuna diretta critica alla sfera privata dei singoli professionisti.

A conclusioni diverse invece è giunto il Tribunale di Roma con riferimento ad un commento di un altro utente che riferiva invece di un medico – all’interno della stessa struttura sanitaria-  che molestava le pazienti, veicolando altresì la notizia (fermamente contestata dalla struttura ospedaliera) che a fronte della segnalazione di tali gravi fatti, la struttura minacciava querela anziché svolgere gli opportuni accertamenti.

I commenti in questione infatti, lungi dal rappresentare semplici giudizi negativi, impressioni o sentimenti di disagio, formulavano una precisa accusa di natura penale (molestie sessuali nei confronti delle pazienti) con conseguente pregiudizio per l’immagine e la reputazione della struttura in questione.

A fronte della gravità di tale episodio, sia sul piano etico che giuridico e nell’impossibilità di dare consistenza alle accuse formulate, il Tribunale di Roma ordinava a Google my business di rimuovere tale contenuto.

Ai sensi della normativa vigente infatti il gestore della piattaforma -nel caso di specie Google my business-  non è responsabile delle informazioni ivi memorizzate, salvo che non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione stessa sia illecita.

In sostanza, in mancanza di un provvedimento del giudice che disponga la rimozione di un post, di fronte ad una segnalazione relativa al contenuto potenzialmente illecito di una pagina, l’obbligo di rimuoverla in capo al provider sussiste solo ove sia evidente e manifesta l’illiceità dei contenuti stessi.

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