Social network

Social network e tutela dei dati personali

L’omessa informazione da parte del titolare di una piattaforma social circa l’intento commerciale perseguito, utilizzando i dati dell’utente a scopo remunerativo, costituisce pratica commerciale scorretta ai sensi degli artt. 21 e 22 del codice del consumo.

Tale principio è stato sancito dal Tar del Lazio con la sentenza n.261 del 2020 nell ’ambito di un ricorso proposto da Facebook contro un provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) che sanzionava il noto social network per pratiche commerciali scorrette, vietandone la continuazione.

Una pratica commerciale è scorretta, ai sensi del codice del consumo, se contraria alla diligenza professionale ed è in grado di falsare in misura apprezzabile il comportamento del consumatore.

In particolare è considerata ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non veritiere circa la natura del prodotto o le sue caratteristiche principali, o tali da indurre il consumatore ad assumere una decisione commerciale che altrimenti non avrebbe preso.

Secondo il codice del consumo inoltre, una pratica commerciale è altresì considerata un’omissione ingannevole quando un professionista occulta o presenta in modo oscuro, incomprensibile, ambiguo o intempestivo le informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno per assumere una decisione di natura commerciale, o non indica l’intento commerciale della pratica stessa.

Nel caso di specie, secondo l’AGCM, l’informativa rilasciata dal social network in fase di registrazione dell’utente, risultava non veritiera e fuorviante in quanto a fronte della gratuità del claim, “Iscriviti è gratis e lo sarà per sempre”, non rendeva edotto il consumatore del valore economico di cui la società beneficiava in conseguenza della registrazione dell’utente, traendolo così in inganno ed impedendogli di effettuare una scelta consapevole al momento della sua adesione al social.

Avverso il provvedimento emanato dall’autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Facebook presentava ricorso chiedendone l’annullamento.

In particolare contestava di aver posto in essere un comportamento violativo dell’obbligo di correttezza nei confronti dei propri utenti, eccependo altresì l’incompetenza dell’Agcom ad adottare il provvedimento sanzionatorio impugnato, attesa la gratuità del servizio prestato e intesa nella comune accezione di mancanza di controprestazione in denaro richiesta all’utente per usufruire del servizio.

Rilevava il social network infatti, che affinchè si possa configurare una pratica commerciale scorretta ai sensi del codice del consumo, fosse necessario che un consumatore acquisti e quindi paghi un prodotto o un servizio, circostanza questa che non ricorreva nel caso di specie al quale sarebbe da applicare unicamente la disciplina europea sulla privacy (c.d Gdpr) trattandosi appunto di dati personali.  

Ad inficiare la validità di tale tesi è tuttavia la circostanza –come ha rivelato lo scandalo Cambridge Analytica- che i nostri dati personali, hanno un valore economico de facto, suscettibile di sfruttamento economico, che impone di riconsiderare il concetto di dato personale in un contesto normativo più ampio del GDPR (Regolamento europeo in materia di protezione dei dati personali).

La raccolta e lo sfruttamento dei dati degli utenti a fini remunerativi si configura come controprestazione del servizio offerto dal social network, in quanto dotati di valore commerciale.

Secondo il Tar del Lazio infatti

la tutela del dato personale riconducibile esclusivamente al diritto della personalità dell’individuo e come tale soggetto a specifiche forme di protezione, quali il diritto all’oblio; il diritto di accesso, o la revoca del consenso, scontano una visione parziale della potenzialità insite nello sfruttamento dei dati personali”.

Nel mercato digitale il fenomeno della patrimonializzazione dei dati personali, impone ai titolari di piattaforme social di rispettare, quegli obblighi di chiarezza, completezza e non ingannevolezza delle informazioni previsti dalla legislazione a protezione del consumatore nella fruizione di un servizio quale un social network.

Lo sfruttamento di tali dati è infatti idoneo a configurare l’esistenza di un rapporto di consumo tra il professionista e l’utente, non potendo l’omessa informazione circa lo sfruttamento degli stessi considerarsi una questione disciplinata esclusivamente dal Regolamento sulla privacy, rilevando altresì le disposizioni in materia di diritto dei consumatori.

Secondo la sentenza citata infatti, non solo non vi è alcuna incompatibilità tra le previsioni del regolamento della Privacy e quelle in materia di tutela del consumatore, ma tali previsioni si complementano, imponendo obblighi informativi specifici, che tutelano da un lato il dato personale come diritto fondamentale della personalità e dall’altro il diritto del consumatore ad una scelta economica consapevole attraverso una corretta informazione da parte del professionista circa lo sfruttamento dei dati personali dell’utente a fini commerciali.

Posto pertanto che lo sfruttamento economico di tali dati risulta essere idoneo ad assurgere alla funzione di controprestazione in senso tecnico di un contratto, è possibile configurare l’esistenza di un rapporto di consumo tra il professionista e l’utente e conseguente applicazione della disciplina consumeristica.

Ciò posto quindi, l’intento commerciale perseguito dal titolare di piattaforme social deve risultare in maniera chiara e completa dall’informativa rilasciata dallo stesso in fase di registrazione dell’utente.

Il Tar del Lazio pertanto con la sentenza citata, ha ritenuto correttamente formulato il giudizio di ingannevolezza della condotta di Facebook così come operato dall’Agcom, sancendo l’obbligo del professionista di informare l’utente che i suoi dati personali verranno usati per finalità commerciali che vanno al di là di utilizzazione del social network.

In mancanza di tali informazioni o qualora le stesse risultino inadeguate o fuorvianti, la pratica commerciale posta in essere dal professionista titolare della piattaforma social è qualificabile come pratica commerciale scorretta nei confronti della propria utenza.

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